2 maggio 2008
20 gennaio 2008
JAMAIS VU
Ci si abitua a tutto.
Forse.
Forse non proprio a tutto.
Ci si abitua a quasi tutto. Già, quasi a tutto.
Basta poco tempo, e ogni volta ne serve sempre meno.
E allora cosa fai? Fai quello che ti sembra più logico, cambi.
E cosa cambi? Cambi quello che non hai paura di perdere, cambi la macchina, anche se per farlo dovresti cambiare pure lo stipendio, ma hai paura, quindi mantieni il lavoro e cambi solo la macchina, magari usata ma diversa, così, per cambiare. Oppure cambi pettinatura, ma resti sempre uguale, solo con i capelli più corti.
E se non cambi, aggiungi. Compri un altro PC, questa volta lo prendi portatile, che non si sa mai, può sempre servire fuori casa, magari al lavoro. Poi lo lasci sempre lì, accanto al fisso, dopo un po’ ti dimentichi anche di averlo.
Arrivi fino a cercare emozioni nuove, che ancora non conosci appieno, ma ti accorgi dopo pochi minuti che ci si abitua anche alla paura, non ci sono eccezioni alla regola.
È tutto come le caramelle, gli scacchi, il biliardo. La prima volta trovi gusti nuovi, idee spiazzanti, geometrie assurde, poi tutto sa di limone, o menta, le idee si ripetono sempre uguali, e la geometria piana è stata sviscerata da secoli, o da millenni.
È tutto come la vita.
Ci si abitua a tutto.
Forse.
Ci sono momenti in cui ti sei già abituato anche a quello che non hai mai visto, I francesi lo chiamano déjà vu, tutti lo chiamano déjà vu, un sentimento familiare per cose o situazioni che non dovrebbero esserlo, familiari.
Ma i francesi hanno anche un modo per indicare il contrario, la sorpresa di fronte a situazioni conosciute, una sensazione molto più rara, tanto che tutti gli altri non la chiamano così. Non la chiamano nemmeno con altre parole. Non la chiamano.
I francesi dicono jamais vu.
Ci si abitua a tutto.
Forse.
Forse non proprio a tutto.
Ci si abitua a quasi tutto. Già, quasi a tutto.
Però, ogni volta che ti vedo, anch’io, e non sono francese, dico jamais vu.
7 gennaio 2008
DIECI IN CONDOTTA
«Sara».
«15».
«Sì, sto finendo la prima ragioneria, insomma, né bene né male, come si dice, senza infamia e senza lode»…
«Sì, mi piace, abbastanza».
«Fare shopping, Tiziano Ferro, i libri di Moccia, i ragazzi».
Ecco, questo è quello che rispondo di solito a chi mi chiede:
1. Come ti chiami?
2. Quanti anni hai?
3. Studi? Se sì, cosa?
4. (Se hai risposto sì alla domanda N°3) Ti piace studiare?
5. Cos’altro ti piace?
All’inizio non rispondevo così, ero solita dire quello che veramente pensavo, quello che credevo fosse giusto o, almeno, vero per me in quell’istante.
Il tempo forma esperienze a volte sbagliate, ma quasi sempre utili a uno scopo. Per me è stato così.
Alle prime due continuo a rispondere come una volta, con la verità. A tutte le altre, invece, non rispondo più con la verità, ma con quello che penso gli altri vogliano sentirsi dire.
Non lo faccio perché provo piacere nell’essere accettata dagli altri. Non lo faccio perché vorrei essere quello che non sono. Non lo faccio per far piacere ai miei genitori, né a nessun altro. Non lo faccio per nessuno di questi motivi né per molti altri che adesso non mi vengono in mente. Lo faccio solo perché è il modo migliore per ottenere quello che voglio. Forse non proprio il migliore, ma sicuramente il più rapido.
Non sono svogliata, ho provato per molto tempo a spiegare che non sono come gli altri, e che spesso neanche gli altri sono come gli altri, fino a capire che a nessuno interessa quello che pensi e quello che sei, fino a capire che tutti hanno paura di qualcosa che non riescono a catalogare, a inserire in uno dei due cassetti che compongono le loro menti comprate all’Ikea, il cassetto normale e il cassetto malato.
È a questo punto che ho preso la mia decisione, che ho fatto la mia scelta, ho scelto il cassetto normale. L’ho fatto solo perché l’altro, più seducente e stimolante del primo, porta con sé complicazioni ulteriori come la falsa preoccupazione e la conseguente mobilitazione in massa di interi team di assistenti sociali, analisti, educatori, quelli che io chiamo gli ascoltattori.
Non c’è cattiveria nella mia scelta, non provo piacere nel raccontare continuamente balle, lo faccio solo per trarne un vantaggio, per convenienza. Lo faccio per non sprecare tempo nel modo peggiore possibile.
Quindi per tutti sono Sara, ho quindici anni.
Per nessuno me ne sento addosso molti di più.
Per tutti studio all’istituto tecnico per le attività turistiche C. Arzelà, sono alla fine del primo anno, vado benino e mi piace abbastanza.
Per nessuno studio all’istituto tecnico per le attività turistiche C. Arzelà, sono alla fine del primo anno, vado benissimo e sì, studiare mi piace molto ma non sopporto gli insegnanti.
Per tutti mi pace lo shopping, Tiziano Ferro e Moccia.
Per nessuno odio le parole inglesi, il pop italiano, le frasi da Baci Perugina.
È singolare scoprire come le persone non abbiano paura solo di ciò che ritengono sbagliato, spaventoso nel senso di orribile. La gente non sopporta, o forse non comprende, nemmeno qualcosa di eccellente, di idealmente esemplare, come il mio rendimento scolastico.
Fino a poco tempo fa, quando già da mesi portavo avanti il mio sistema e tentavo di perfezionarlo di volta in volta, ero solita non mentire sui risultati che ottenevo nello studio, anzi, sicura di far piacere e di risultare una ragazza ancora più normale di quanto si aspettassero, insistevo nell’elencare la sfilza di voti spesso in doppia cifra che collezionavo tra le ignoranti mura didattiche. Questo fino a quando non mi sono resa conto che la gente cercava di risalire a un problema che stesse alla base dei miei risultati.
«Ma studi molto?» Chiedevano.
«Sì, molto».
«Per quale motivo?» Continuavano.
«Perché mi piace, perché sono una studentessa, è questo quello che faccio».
«Ma è perché non hai amici?» proseguivano.
«No, che c’entrano gli amici, studio perché mi piace».
«Dai, a me puoi dirlo, cosa c’è che non va? Ti ha lasciato il ragazzo?» Insistevano.
«No, davvero».
«Va bene, se non vuoi dirmelo non importa, non fa niente». Concludevano.
È come chiedere a un rubinetto perché fa uscire l’acqua. È come chiedere a un pilota perché guida. Non è come chiedere a una persona perché pensa.
Quindi, dopo alcune esperienze simili sufficienti a farmi capire chiaramente che anche piccoli spostamenti da una linea ideale di assoluta omologazione sarebbero stati fraintesi e pericolosi, ho deciso di mentire dando un’immagine di me il più possibile diretta verso un ideale centro di gravità noiosa.
Questa io la chiamo convernienza, la convergenza verso il niente. E io sono diventata una maestra di convernienza apparente.
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