13 aprile 2007

IL MIO FEGATO ALLA VENEZIANA


Non sono poeta, di tempo ne ho poco
e voglia anche meno di far la gavetta
e poi non ho mai ritenuto un bel gioco
cercare insistendo la rima perfetta

non vivo dabbene, non della pro loco
son sostenitore, non è per la fretta.
Io odio guardare la prova del cuoco
e chiedo sovente a Maria benedetta

ma porco di un… cane, tu che sei divina
perché non mi spieghi la mente terrestre?
Poi certo che questa nazione è in rovina,

siam rincoglioniti da salse e minestre,
salami sugl’occhi e non in cantina
e se non mangiamo saltiamo finestre.

6 aprile 2007

MONOTONIA


Tutto è cominciato una settimana fa.
Ricordo benissimo il giorno, in fondo è passato poco tempo, non potrei dimenticarlo.
Era giovedì, lo ricordo bene perché il giovedì metto le mutande con il numero quattro cucito davanti, tutti i giovedì le stesse mutande, lo stesso numero, così come il lunedì indosso quelle con l’uno, il martedì quelle con il due, fino ad arrivare alla domenica con il sette. In questo modo sono sicuro di mettere sempre mutande pulite e in più so che giorno è.
Quindi, dicevo, tutto è cominciato una settimana fa.
Era giovedì, e come ogni giovedì mi stavo facendo la doccia alle 19 e 15. Il giovedì, era giovedì, faccio sempre la doccia alle 19 e 15 e impiego, tra spogliarmi, lavarmi, asciugarmi e rivestirmi circa 16 minuti, a volte arrivo a 18.
In realtà la doccia la faccio tutti i giorni e tutti i giorni impiego 16 minuti a farla, a volte 18, ma solo il giovedì, era giovedì, la faccio alle 19 e 15. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì la faccio alle 21 e 30, in palestra, alla fine dell’allenamento; il martedì la faccio alle 21, il sabato e la domenica mi metto sotto la doccia la mattina, alle 8 e 40.
Il giovedì, era giovedì, faccio la doccia alle 19 e 15 perché dopo, alle 20 e 30, vado al cinema. Ci vado sempre, tutti i giovedì, non importa se il film che danno è interessante, anche se penso che non mi piacerà ci vado lo stesso, e ci sarei dovuto andare anche giovedì scorso, esattamente una settimana fa, quando iniziò tutto.

28 marzo 2007

APERITIVO


APERITIVO

Mi siedo al bar e chiedo un bicchiere di Porto, rosso.
Amo questi momenti di pubblica solitudine, questa impegnata e impegnativa apatia.
Seguo con lo sguardo il rapido allontanarsi della cameriera senza osservarla veramente, come una musica che fa da sottofondo al film dei miei pensieri.
Sto fermo, aspetto, e penso...
Niente di particolarmente interessante o impegnativo, ma penso.
Inizio con qualcosa di semplice, così, per scaldarmi in attesa di pensieri più' complessi.
Penso al tempo.
E' gennaio, ma non lo sembra, non in questo istante.
Due ore fa sì, lo sembrava, e tra un paio d'ore probabilmente lo sembrerà di nuovo, ma ora no, non è gennaio.
Il cielo è pulito, lavato da una pioggia accortasi di aver finito il suo lavoro soltanto ieri, e il sole allo zenith (si dice così?) dà il meglio di sé che, come per tutti in questa stagione, non è molto, ma almeno lui ci prova...
E' un po' come i giudizi che ti davano alle elementari, quelle frasi ripetute sempre uguali come “il ragazzo è intelligente ma non si applica, potrebbe dare di più”, oppure “suo figlio ci prova, si vede che s’impegna, ma gli mancano le basi”.
Ecco, in questa tarda mattinata il sole si applica, ci prova, non può dare di più ma i risultati sono appena sufficienti, beh, sa com'è signora, non tutti siamo nati per fare l'avvocato o il dottore.
E nemmeno l'insegnante, penso...
Comunque, complice l'orario, questo sole scalda più di quanto ci si aspetterebbe.
Credo che se una persona si svegliasse dal coma in questo momento penserebbe che sia primavera, se non addirittura l'inizio di un'estate non troppo bollente.
Immediatamente dopo rifletto sull'enorme quantità di cazzate la cui posta viene recapitata nella mia mente, e sul fatto che quel tizio che si è appena risvegliato dal coma ha molto da pensare prima di soffermarsi su che giorno è.
La cameriera non torna, mi faccio una sigaretta.
Tiro fuori dalla tasca il tabacco, lo poso sul tavolino, poi trovo l'accendino, poso anche quello.
Per ultima mi capita in mano la scatolina dove tengo le cartine e i filtri.
E' una piccola scatola di metallo nata per un utilizzo meno lesivo della salute rispetto a quello di oggi.
Quando l'ho comprata, questa scatoletta conteneva dei piccoli rombi di liquirizia.
Ricordo di essere rimasto colpito dal disegno sul coperchio: un arlecchino con un'espressione non troppo allegra, direi simile a una smorfia, che getta coriandoli in una notte di luna piena, con una gondola, un albero e quelli che sembrano i resti di un qualche tempio greco sullo sfondo, in una sola parola, orribile!
Talmente brutta, però, da risultare interessante...
E' il fascino dell'orrido, è restare colpiti da qualcosa che troviamo ripugnante eppure morbosamente affascinante.
E' fermarsi a guardare un incidente, è un film splatter, è guardare nel fazzoletto dopo essersi soffiati il naso.
Anche il motivo di questo disegno su una scatola di liquirizie ha un che di stupidamente geniale.
Tutto sta nel vestito di Arlecchino: le pezze che lo compongono sono tutte a forma di rombo, esattamente come le liquirizie...
Guardando la piccola scatola con un'attenzione che non le concedevo da molto tempo, mi rendo conto di quanto è rovinata, invecchiata direi…
Come in quel gioco che si faceva da bambini in cui uno dice una parola e così via fino a quando non si trovano più parole o, più probabilmente, fino a quando non ci si stufa, così ho iniziato ad associare idee a quel primo pensiero della scatoletta vecchia.
Scatoletta vecchia – dovrei cambiarla – è tanto che fumo – forse dovrei smettere – però, in fondo, ci tengo a questa piccola scatola – vabbè, dai, la tengo.
La apro, prendo un filtro e lo metto in bocca, tolgo una cartina dal pacchetto rosa che le contiene e la tengo in mano.
Ora tocca al tabacco, ne strappo un po' tenendolo tra il pollice e l'indice e lo metto nella cartina.
Tolgo il filtro dalla bocca e lo metto accanto al tabacco, sulla destra.
Stringo i bordi della cartina con entrambe le mani, sfregando in alto e in basso le dita, do al tutto una forma cilindrica.
Il resto succede in pochi secondi.
Infilo con il pollice della mano sinistra un lembo della cartina all'interno del cilindro, lecco la piccola striscia di colla e infine chiudo il tutto.
Mi viene in mente una canzone, “la città vecchia” di De Andrè, quel verso che fa “presto affinerà le capacità con l'esperienza”…
Quanto è vero…
Se mi fossi applicato nello studio, magari del pianoforte, con la stessa devozione con la quale mi sono completamente offerto alle sigarette, probabilmente stasera suonerei alla Royal Albert Hall.
Si può dire che sono il Keith Jarrett dei tabagisti...
La cameriera torna verso di me ma, stranamente, non ha niente in mano.
Questa volta la osservo con più' attenzione.
Strano, a “prima vista” mi era sembrata una donna decisamente matura, intorno ai cinquant'anni, ma adesso mi accorgo che di anni ne ha al massimo trenta, molto probabilmente meno…
Ha i capelli neri, molto lunghi, ricci…
La pelle è bianca, molto bianca, troppo bianca.
Non è quel colore che di solito identifica la pelle come ''di porcellana'', è più un bianco che tende al grigio, o forse all'azzurro, somiglia un po' ai capelli delle vecchie, o anche alla pelle dei cadaveri che si vede nei film.
Non è truccata, non gli occhi, non le guance, ha solo un rossetto rosso, molto rosso, troppo rosso.
Mi piace.
Mi piace questa scomoda convivenza tra vita e morte, sembra che tutto il sangue presente nel suo corpo si sia concentrato lì, sulla bocca, pronto a un'eruzione esplosiva, con me, novella Pompei, in attesa di essere sopraffatto...
Vedo solo le sue labbra, il resto non m’interessa.
Le vedo impegnate in un seducente passo a due...
Ora si allontanano, ora si avvicinano fino a toccarsi, simmetrie reciproche nella danza della parola.
Già, la parola, perso nell'inseguimento del movimento ho completamente perso di vista il significato, che cosa avrà detto?
-Ad essere sincero mi sono lasciato piacevolmente distrarre dalle tue labbra e non ho capito quello che hai detto ma non importa, anche perché sono io a voler parlare.
Sai a volte succede qualcosa che non ti aspetti, magari ci speri, ma non te lo aspetti, come vedere un film che ti piace, o come il sole la domenica, qualcosa di dolce, reso ancora più dolce dalla sorpresa.
Qualcosa come incontrare te, stamattina.
Vorrei dirle questo e molto di più, vorrei dirle cose che ho già detto ma alle quali non ho mai creduto fino ad ora.
Vorrei dirle che è un sogno che non riesco a ricordare, un sogno troppo bello, talmente bello che se lo rievocassi nei miei pensieri diurni probabilmente vorrei tornare immediatamente a dormire, e morirei di piaghe da decubito in una settimana.
Vorrei dirle che la sola idea di lei è una malattia che il mio corpo rigetta per sopravvivere.
Vorrei dirle che è sempre stata in me senza che io me ne accorgessi, eppure lo so, vorrei ma non ci riesco.
Le mie parole escono dalla mente ma sono dirottate verso altre mete prima di arrivare alla bocca.
L'unica che riesce ad evitare ogni controllo e arrivare intera tra le mie labbra è “scusa”, soltanto e niente più di “scusa”, e questo è quello che dico.
-Scusa?
E lei -Vuole il ghiaccio nel suo porto?
-No, grazie, niente ghiaccio.
Se ne va un'altra volta.
Un Porto con il ghiaccio è scomodo e fastidioso come un porto con il ghiaccio.
La guardo ancora mentre si allontana e più la osservo più m’innamoro, e più m’innamoro più mi do del deficiente.
Non devo pensarci troppo, se mi concentro solo su di lei non riesco a restare freddo, calmo.
Mi emoziono e non va bene.
E allora mi fermo, mi calmo e ricomincio con i pensieri...
Ne faccio due sul tempo, mezz'etto sul fatto che si muore, cinque sui cani.
Sul sesso provo a non farne ma è difficile.
È come non pensare al mare se vivi a Genova, non pensare al the quando sei nello Sri Lanka, non pensare ai voti quando sei a scuola, o in convento.
E, infatti, non ci riesco, mi sforzo ma non ci riesco, e forse è proprio questo sforzo che mi ci fa pensare.
Però mi rendo conto che c'è qualcosa di più, di diverso dal solito, da tutte le altre volte.
Io sono diverso, ma soprattutto lei è diversa, non la conosco ma lo so.
Non sono mai stato una persona empatica, non riesco a entrare negli altri, non capisco la gente al primo sguardo, non riesco a inferire intenzioni e sentimenti dalle espressioni.
Sono uno di quelli che gli altri definiscono freddi, materialisti, e hanno ragione.
Eppure questa volta è tutto diverso, questa volta la conosco pur non avendola mai vista, la capisco pur non avendola mai ascoltata.
Sta tornando con il mio Porto rosso senza ghiaccio.
Lo posa sul tavolo, si volta verso di me, mi guarda negli occhi e mi sorride.
Il mio cervello che ormai non è più buono nemmeno per fare da contorno in un piatto di fritto da ristorante cinese riesce, dopo una gestazione elefantiaca, a partorire solo un “grazie”.
-Prego.
E se ne va ancora una volta.
E io ancora qui seduto, solo, un po' più vecchio, un po' più stupido.
Non ci sono riuscito neanche questa volta.
Bevo, ma senza il sollievo che di solito ottengo dal farlo.
È una condizione migliore e peggiore allo stesso tempo.
Non è più quella sorta di quiete autunnale che prima mi permeava e che mi faceva stare bene, adesso è tutto nuovo, tutto acquista un senso, e tutto quello che prima un senso l'aveva ora l’ha perso.
E insieme alla sensazione mai provata e disarmante di sentirmi vivo per la prima volta, nasce un altro sentimento ugualmente forte ma straziante, la paura.
Ho paura.
Paura di non avere il coraggio di parlarle, paura di me, paura di perdere l'unica”cosa” che vorrei avere, paura di avere paura.
Continuo a bere, a stare bene e male, e a pensare.
Nella mia testa Battisti sta cantando una canzone, la collina dei ciliegi, quel verso che fa “troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante, e quasi sempre dietro la collina è il sole”.
Io il sole l'ho intravisto, ma la mia collina è diventata una montagna e la mia prudenza, più che stagnante, ormai è paludosa.
Non ce la faccio ma devo farcela.
Vuoto il bicchiere più in fretta del solito, non penso nemmeno ad accendermi un’altra sigaretta, mi alzo e mi dirigo verso la cassa.
Questa volta sono convinto, questa volta le parlo, ce la faccio, me lo sento.
Mi avvicino alla cassa lentamente, sicuro.
Lei mi nota e dice qualcosa sottovoce alla sua collega che si allontana immediatamente.
Non ne sono certo, ma credo mi abbia davvero notato.
Avanzo verso la cassa deciso, accelerando l’andatura ad ogni passo, e lei fa lo stesso.
Arriviamo insieme, quasi correndo.
La ragazza dei miei sogni dimenticati nel frenare quasi inciampa e, per non cadere, fa qualche passo in più superando la cassa.
A questo punto si rende conto di quello che ha fatto, arrossisce vistosamente, e torna verso di me.
-Dimmi.
Mi dà del tu.
-Ti devo pagare il Porto.
Le do del tu.
-Tutto qui?
-Si, non ho preso altro.
-Tre euro e cinquanta.
Pago, vergognandomi di me stesso, , ringrazio, senza riuscire a dire altro, ed esco.
Non l’ho mai più vista.

13 marzo 2007

UN LUOGO COMUNE


All'interno del nostro bel paese, più precisamente tra Brindisi e Cuneo, si trova un piccolo paese con non più di mille anime al suo interno dall'evocativo nome di Vivalagnocca.

Le origini di questo curioso nome sono da attribuirsi a ciò che successe in un periodo di alcuni anni successivo alla fondazione del suddetto paesello.

Questa fotocopia ridotta di un qualsiasi altro borgo della zona (come ho già detto, tra Brindisi e Cuneo) era destinato ad assumere uno dei nomi che, per convenzione, si danno ai borghi di tutto il nostro paese che non spiccano per qualche estrosa caratteristica.

Quello era chiaramente un luogo comune, nel senso che era un luogo come tanti altri, solo più piccolo e, quindi, scegliere per “luogo comune” il nome di un luogo comune sembrava normale.

Si pensò a Castelnuovo di Sotto, ma non c'era un vero e proprio castello, e poi i paesani non volevano sentirsi inferiori agli abitanti di Castelnuovo di Sopra...

Allora prese piede il nome di Borgostretto, ma, dopo varie consultazioni, anche questo nome sembrò poco appropriato. Il borgo c'era, è vero, ma definirlo stretto sarebbe stato perlomeno un eufemismo, in realtà il borgo era molto più stretto di stretto, e Borgosrettissimo non piaceva a nessuno.

Dopo aver bocciato altri numerosi tentativi, più o meno fantasiosi, per l'impossibilità di mettere d'accordo tutta la cittadinanza (che a quel tempo era numericamente molto inferiore rispetto ai giorni nostri), si decise di comune accordo di indire un concorso il cui vincitore avrebbe deciso, immediatamente dopo la sua premiazione, il nome del paese.

La scelta della competizione fu una questione non meno laboriosa di quella che avrebbe dovuto risolvere.

Le difficoltà nascevano dal fatto che gli abitanti volevano avere tutti le stesse probabilità di vittoria e, nonostante il fatto che fossero veramente pochi li aiutasse, per molto tempo non si riuscì a trovare una gara nella quale tutti sarebbero partiti alla pari.

Dapprima si pensò ad una gara di bevute.

I paesani erano famosi in tutta la vallata per essere dediti ai piaceri di Bacco, e vista l'usanza di iniziare i piccoli frutti dell'amore a questi sollazzi il più presto possibile attraverso la pratica della sgrappatura,consistente nel far bere due litri di grappa aromatizzata alla sugna ai giovani virgulti nel giorno del compimento dei sei mesi d'età così da non far loro perdere inutilmente del tempo che poi non avrebbero più potuto recuperare, gli abitanti di ogni età e sesso (le donne non erano da meno degli uomini) avrebbero concorso alla pari.

Questa sembrò subito a tutti l'idea migliore e, forse, l'unica attuabile.

Purtroppo, però, avevano fatto i conti senza l'oste.

Anni prima, infatti, una grave calamità si era abbattuta sulla popolazione del posto, la commistione tra la natura alcolica tipica di tutti e le pressoché infinite riserve, prerogativa dell'oste, aveva causato una innumerevole serie di morti causate dall'abuso di amari, liquori e affini, tanto che per correre ai ripari all'unanimità si decise di non sgrappare un bambino, farlo crescere astemio, per poi destinarlo al nobile mestiere dell'oste.

Questo sistema funzionò ma adesso nel villaggio una persona non poteva partecipare alla gara.

Allora si pensò a una gara podistica, l'idea era quella di impegnare gli abitanti in tre giri del paese.

Questa proposta, però, presentava alcune difficoltà difficili da superare.

Primo, i bambini e gli anziani, per ovvie questioni fisiche, si sentivano svantaggiati rispetto agli altri.

Secondo, nel paese viveva un uomo che aveva perso una gamba durante un'accidentale esplosione avvenuta mentre stava distillando dodici litri di grappa per la cena.

Le proposte per ovviare a questi inconvenienti furono numerose, ed alcune di queste vennero prese in seria considerazione.

Per la questione della differenza di età si pensò di zavorrare con sacchi pieni di sabbia le persone a seconda della loro età, un peso maggiore per le persone dai venti ai trent'anni che diminuiva con l'allontanarsi da questa età. Inoltre si decise di imporre l'obbligo di correre saltellando su una gamba sola per risolvere l'altra questione.

In questo modo sembrò a tutti che ogni differenza fosse appianata.

Purtroppo, però, avevano fatto i conti senza l'oste.

Il non più tanto simpatico esercente, essendo come abbiamo già detto l'unico astemio, portava con sé un vantaggio incolmabile che nessun stratagemma sarebbe riuscito ad eliminare.

Bocciata, quindi, anche questa, la proposta successiva fu quella di indire una gara di offese e turpiloquio.

Questa sembrò subito una buona idea, certo non era paragonabile a quella della gara di bevute, ma almeno sembrava attuabile.

Sembrava perché, purtroppo, avevano fatto i conti senza l'oste...

L'ormai insopportabile negoziante, infatti, era muto.

La gente del volgo soleva dire che fosse colpa della sua sobrietà, il fatto che non avesse mai bagnato la sua lingua anche soltanto con una goccia d'alcol gliel'aveva fatta seccare, e così non era mai stato capace di parlare...

Così anche questa trovata divenne inapplicabile, e come questa altre, e sempre per lo stesso “motivo”.

Passò del tempo e altre proposte, e, quando ormai si credeva che non si sarebbe trovata una soluzione, una soluzione arrivò.

Un giorno, era domenica, l'osteria alle sei di mattina era ancora chiusa.

Ora, questo fatto potrà sembrare normale ma in quel posto, in quel tempo, non lo era affatto.

Alla sei e tre minuti un piccola folla si era già radunata davanti all'esercizio, colpita e preoccupata dall'inspiegabile ritardo.

Alle sei e sette fu chiaro a tutti che era successo qualcosa di importante all'ormai già da tutti compianto commerciante.

Alle sei e nove tutti i paesani si erano radunati davanti all'abitazione dell'oste e, dopo aver bussato più volte, decisero di forzare l'uscio.

Alle sei e undici l'intera comunità si trovò di fronte ad uno spettacolo quantomeno curioso.

Il corpo chiaramente senza vita del cantiniere era lì, di fronte a loro, legato mani e piedi ad una sedia, con un imbuto infilato in bocca e un cartello appeso al collo con su scritto: “CI AI FINITO DI STARCI TRA I PIEDI!”.

In terra, intorno al cadavere, cinque damigiane vuote di “ultimo sorso” di Montaltunmetreottanta di sotto, un distillato leggermente alcolico prodotto in una collinetta lì vicino e adoperato, in dose di una goccia ogni mille litri, come anestetico per cavalli.

Fu subito chiaro a tutti che si trattava di un semplice suicidio, e come tale venne archiviato dalle forze dell'ordine del luogo.

Il giorno dopo tutti gli abitanti si riunirono in assemblea e decisero la competizione per la scelta del nome.

All'unanimità venne scelta una gara detta il “Triatlone”, consistente in tre prove distinte.

Le prime due, una corsa di tre giri intorno al paese con le regole che ho già descritto e la gara di offese, avrebbero determinato un punteggio da tramutare poi in litri bonus per la terza ed ultima prova, la gara di bevute.

La mattina del martedì la cittadinanza intera, e una folla di curiosi giunta dai paesi vicini, si radunò nella piccola piazza per dare inizio alla competizione.

I giudici legarono una gamba a tutti i partecipanti, tranne uno, distribuirono i pesi in base all'età e, finalmente, diedero il via.

Alla fine del primo giro Mauro “Scaricatore” Stefani, un giovane di ventiquattro anni, noto per la sua prestanza fisica e per la facilità con la quale fuggiva da rapporti di coppia stabili, si trovava in netto vantaggio, seguito non troppo da vicino da Luigi “Professore” Menegatti, l'unico nel paese ad avere concluso la scuola elementare.

Terzo, in rimonta, Luca “Zoppo” Buozzi.

Alla fine del secondo giro lo Zoppo, forte della sua abitudine a camminare su un piede solo aveva rimontato e superato il Professore, e si stava avvicinando alla testa della corsa.

A metà del terzo giro lo Scaricatore che, nonostante la rimonta dello Zoppo, ormai vedeva avvicinarsi la vittoria fu costretto a rallentare a causa di un assalto da parte di un gruppo di giovani fans, che gli saltarono addosso abbracciandolo e baciandolo.

Stefani si fidanzò con cinque di loro e ne sposò tre, per poi lasciarle tutte.

Questo lo impegnò per almeno quatto minuti e diciassette secondi che gli fecero perdere la testa della gara e anche il secondo posto.

Al traguardo arrivarono nell'ordine Buozzi Luca, detto lo Zoppo; Menegatti Luigi, detto il Professore; Stefani Mauro, detto lo Scaricatore; gli altri a seguire...

Nella seconda gara si mise subito in evidenza Lorenzo Comolli detto Nostradamus.

Da sempre in lite con il professore per una questione riguardante l'uso dell'anadiplosi, o epanastrofe, nelle orazioni catilinarie di Cicerone, decise di benedirlo subito.

-A PROFESSO', CI AI (e qui nacquero sospetti riguardanti il cartello di prima) UN CERVELLO CHE SE TE LO PRENDEVANO GLI EXTRATERRESTRI PER STUDIALLO,TE LO RIDAVANO DOPO UN MINUTO...

Il Professore, come tutti in quel periodo tranne Nostradamus, non sapeva chi fossero gli extraterrestri, ma rimase comunque colpito da quell'offesa, e tentò di reagire.

-AH SI? E SE AVESSERO PRESO IL TUO TE L'AVREBBERO RESTITUITO DOPO TRENTA SECONDI!

Immediatamente intervennero i giudici che squalificarono il Professore e lo condannarono alla pena capitale.

Il problema non era l'offesa in sé, in fondo era soltanto la battuta precedente palesemente copiata (il Menegatti non era mai stato un esperto di offese), ma la forma grammaticale della frase pronunciata.

Nel paese, infatti, vigeva una legge che puniva con la pena di morte chiunque mettesse all'interno di un periodo due o più verbi al modo condizionale o congiuntivo senza commettere errori.

Questa ordinanza era conosciuta da tutti ma non aveva mai preoccupato nessuno...

Il Comolli chiese di poter ascoltare la la registrazione dell'intervento del collega per assicurarsi della colpa (era un tentativo di salvare dalla forca il suo più costante compagno di liti senza il quale non avrebbe saputo come impegnare gran parte dei suoi pomeriggi).

I giudici dissero che non avevano idea di cosa fosse una registrazione.

A questa affermazione Nostradamus replicò in toni tutt'altro che pacati.

-MA DOVE VIVETE! NON CE L'HAVETE UNA TELEVISIONE A CASA? E SI CHE TUTTI I GIORNI CE LO FANNO VEDERE A PERRI E A MESON CHE CI VOGLIONO LE REGISTRAZIONI PER CONDANNARE QUALCUNO!

La giuria, come chiunque altro in quel momento e in quella piazza, non capì praticamente nulla di ciò che aveva appena sentito ma, come capita spesso a chi si sente in difficoltà, ritenne le parole del Comolli un'offesa diretta nei suoi confronti, offesa talmente grave da risultare addirittura poco comprensibile.

Quindi decise di concedere immediatamente la vittoria a Nostradamus e di ridurre la pena comminata al Professore che, però, rimase squalificato dala competizione.

Sul podio della seconda prova salirono nell'ordine Comolli Lorenzo, detto Nostradamus; Bolaffi Francesco, detto l'Eretico, che offese l'intera cittadinanza dicendo loro che erano talmente stupidi da credere che la terra fosse rotonda; Stefani Mauro, detto lo Scaricatore; gli altri a seguire...

Si giunse così alla terza ed ultima gara.

In virtù dei risultati precedenti partivano avvantaggiati lo Zoppo e Nostradamus con cinque litri di grappa bonus;l' Eretico con tre litri e lo Scaricatore con due litri in virtù dei due podi.

Bisogna dire che ci si era largamente premuniti in vista di un consumo alcolico non propriamente nella norma.

La sera prima fu radunata in piazza tutta la produzione alcolica del paese ed inoltre arrivarono dai paesi vicini quantità di prodotti con un tasso non inferiore a 80° tali da far ubriacare con i soli vapori da essi scaturiti qualsiasi essere vivente nel raggio di 70 km.

Mentre i paesani si accingevano a bere le prime damigiane di Zibibbo per riscaldarsi in attesa di qualcosa di più serio, nei boschi vicini gli animali facevano professione di libero amore.

Elefanti si innamoravano di farfalle ispirando così cantiche sull'amore impossibile tramandate fino ad oggi, pesci amoreggiavano con felini dando vita a nuove specie animali, boscaioli in preda a pensieri lubrichi inseguivano esemplari di femmine di ratto fraintendendo l'importanza dei nomi.

Intanto nel paese s'iniziò a fare sul serio.

Finito il riscaldamento tutti i concorrenti erano ancora in gioco, tranne il Professore, già squalificato, e lo scaricatore , colpito da un collasso per aver bevuto un bicchier d'acqua che aveva preso per grappa.

Verso mezzanotte le riserve del paese finirono e tutti pensarono che era stata una buona idea quella di farsi portare approvvigionamenti dai paesi vicini.

La notte passò tranquilla tra i primi cedimenti e l'ennesima farfalla ammazzata da un elefante, e si arrivò al mattino seguente con la metà dei partecipanti ancora in gioco.

A mezzogiorno si tentò di fare un'ulteriore selezione introducendo 20 botti di “ultimo sorso” di Montaltunmetreottanta di sotto.

Questo sistema funzionò e in gara rimasero soltanto Buozzi Luca, detto lo Zoppo e Canzio Carlo, noto a tutti come l'Astemio...

I due erano già stati pronosticati come vincenti, e stavano dimostrando appieno le loro capacità.

Lo Zoppo, forte del suo vantaggio di cinque litri di grappa, sentiva ormai la vittoria in pugno.

Canzio, dal canto suo, era certo di essere molto più resistente dell'avversario e continuava a bere tranquillo, senza mostrare il minimo cedimento.

Verso le sei del pomeriggio Buozzi tirò fuori dalla borsa che aveva portato con sé un enorme imbuto che mise, non dopo aver mostrato un malefico sogghigno all'avversario, in bocca ed iniziò subito a farsi versare dentro damigiane di grappa di moscato al ritmo di una al minuto.

L'astemio, che si aspettava un gesto simile, non fu da meno.

Fece un gesto alla moglie, infermiera, che si avvicinò con un carretto trainato da un asino, con sopra un'enorme cisterna piena di limoncello a 98°.

Nel giro di ventidue secondi la signora iniettò al marito una flebo che conduceva alla suddetta cisterna, mentre il Canzio, con il braccio ancora libero continuava a tracannare fiaschi di Amaro del Carabiniere per sciacquarsi la bocca.

Dopo nove giorni di continue bevute da parte di entrambi, ormai talmente ubriachi da non avere idea del motivo della loro presenza in quel posto, in tutta la vallata non si trovò più neanche una goccia d'alcol e la gara fu, per forza di cose, interrotta.

La vittoria andò a Buozzi Luca, detto lo Zoppo, in virtù dei cinque litri di grappa bonus.

Il vincitore fu portato al centro della piazza sorretto da due barellieri e l'unica cosa che riuscì a dire prima di cadere in un coma etilico dal quale non si risvegliò più fu il nome del paese...


3 marzo 2007

IL LAVORO NOBILITA...


Non so cosa scrivere.

A volte ti metti lì, davanti al computer, e non ti viene in mente niente.

Eppure ne avevi e ne avresti anche adesso di cose da dire, da scrivere. Lo chiamano il blocco dello scrittore, che poi io non sono uno scrittore, mi piacerebbe ma non lo sono, e, quindi, non posso avere questo blocco. Io i libri li leggo. A volte, spesso, quasi sempre li annuso, li osservo.

Avrò il blocco del lettoreannusatoreosservatoremanonscrittore, ma non penso perché continuo a leggere, annusare, osservare.

Forse è il blocco del lettoreannusatoreosservatoremanonscrittorechecomunqueogni_

tantooanchespessociprovaascrivere.

Sì, deve essere questo, mi sembra anche di averlo letto da qualche parte, chissà, forse in una rivista. Immagino il titolo in copertina: il blocco del lettoreannusatoreosservatoremanonscrittorechecomunqueogni_

tantooanchespessociprovaascrivere, superatelo col tantra. Non è possibile, con tutto lo spazio che occuperebbe questo, dove la metti poi la figa con le tette di fuori?

Sarà stato il B.D.L.A.O.M.N.S.C.C.O.T.M.A.S.C.P.A.S. e l’acronimomania nei teenagers, così lo spazio per la gnocca rimane e se sei un bravo impaginatore (si dice così?) riesci anche a far entrare i capezzoli nei buchi delle O…

Comunque, quale sia il blocco, io continuo a non riuscire a scrivere…

Forse non dovrei concentrare tutta la mia attenzione su questo.

Probabilmente un docente di scrittura creativa mi direbbe di distrarmi, di non focalizzare tutto me stesso sul problema, e continuerebbe dicendo che dovrei trarre spunto da quello che mi sta intorno, una scrivania, la playstation, la copertina di un libro d’anatomia, ma in questo momento qualsiasi cosa richiama alla mia mente fantasie sessuali con quella giovane professoressa d’italiano dal cognome francese…

Adesso la immagino lì, mora, nuda, in ginocchio sulla scrivania mentre gioca con la consolle ed io, dietro, che riporto le sue disarmanti forme rotonde (che non vorrebbe avere) sul manuale d’anatomia.

No.

Non ci siamo.

Non funziona.

In fondo come si può ascoltare un santone della creatività, come si fa a credere ad uno che ti dice che è capace di insegnarti a scrivere, il che è già difficile, e, addirittura, in modo creativo, quindi diversamente dagli altri!

È come pensare di poter imparare ad essere alto, o con gli occhi azzurri… o lo si è o no!

Certo, si può fingere, mentire, e, a volte, il risultato è più che sufficiente, addirittura buono, ma non è vero, non si è veri!

Non è questione di un machiavellico fine, non voglio imparare a scrivere con la creatività di un altro, voglio la mia!

E se è mia nessuno può insegnarmela…devo trovarla da solo.

Proviamo di nuovo.

Il letto.

La giacca della moto.

La stampante…

Niente, sempre la professoressa… ecco l’infernale macchina che vomita luculliane quantità di stampe rappresentanti lei, ancora nuda, ancora mora, sempre più infinita (come può non volere ciò che io trovo così ammaliante?), distesa sul letto con indosso solo la mia giacca aperta, le sta larga, e, immerso in questo mare cartaceo, io che tento di non annegare ingerendo quanti più fogli possibili, vegetariano cannibale…

No.

Non ci siamo.

Non funziona.

Chissà, forse dovrei trovare l’ispirazione dentro di me e non nelle cose che mi circondano, ma la mia mente in questo momento è un’autostrada verso Torino il quindici d’Agosto… le idee le vedo, sono lì, mi basterebbe invertire la marcia e mi troverei in un ingorgo di pensieri, ma non ci riesco.

No.

Non ci siamo.

Non funziona.

Aspetta… forse… ma sì, ecco, ho trovato finalmente!

Ora so cosa scrivere.

A volte ti metti lì, davanti al computer, e non ti viene in mente niente.

Eppure…


21 febbraio 2007

PREGHIERINA


Credo nel Signore che dà la luce, ma non lo chiamerei Signore visto il prezzo...

Credo nell'inutilità irreversibile del tempo.

Credo nella reincarnazione, ma solo quella delle unghie.

Credo che tutto sia destinato a finire.

Credo negli occhiali da sole.

Credo siano meglio di quelli da male accompagnate...

Credo nella velocità, e nella lentezza.

Credo che non ci sia più religione, e anche ginnastica non è messa tanto bene...

Credo nei programmi non rispettati, nelle promesse non mantenute, nei giuramenti traditi.

Credo sia giusto così.

Credo nella teoria del Brodo Primordiale, un po' meno in quella del Dado Primordiale...

Credo nelle parole, e in chi ama perdere tempo con loro.

Credo nel Credo, non la preghiera ma la lametta per i calli.

Credo nella Storia.

Credo in Angela Lansbury.

Credo nel destino tanto quanto credo in dio e nella chiesa.



Brooklyn

Si vola, dai! Saranno trenta metri, quarantacinque dicono in tv. Sentiamo l'aria in faccia, abbassa i vetri,  sentiamo tutto ora ...